
L'europa va alla guerra senza l'Europa
Edy Generoso Fummo
3/9/2025


L'Europa va alla guerra senza l'Europa
Ci risiamo. La retorica bellica dilaga, il patriottismo d’accatto si moltiplica come un virus e i talk show traboccano di generali in poltrona e opinionisti con l’elmetto. Si leggono editoriali scritti con la bava alla bocca, si ascoltano proclami di uomini che non hanno mai visto un fronte ma che si esaltano all’idea di mandare altri a morire. Sembra che l’Europa, quella stessa Europa che si vantava di aver costruito settant’anni di pace, stia per avviarsi con entusiasmo verso il baratro. Ma il problema, qui, è più profondo della guerra stessa. Il problema è che l’umanità, lentamente, sta impazzendo.
Un mondo fuori controllo
Ci piace credere che tutto abbia una logica: la politica, la storia, i giochi di potere. Ma forse dovremmo smettere di cercare spiegazioni razionali. Ciò che sta accadendo non è materia per analisti geopolitici o esperti di strategia militare. No, qui siamo di fronte a un delirio collettivo, a una psicosi globale che si nutre di ansia, frustrazione e incapacità di vivere la realtà per ciò che è.
Non siamo più capaci di stare nel presente. Guardiamo il mondo attraverso le lenti distorte delle nostre ideologie, delle nostre ansie e delle nostre proiezioni. Non riusciamo ad accettare la complessità della realtà, quindi la semplifichiamo: buoni contro cattivi, democrazia contro tirannia, eroi contro mostri. E così, tra un talk show e un editoriale, tra una dichiarazione bellicosa e un tweet pieno di furore, ci trasformiamo tutti in soldati da tastiera, in crociati da social, in guerrieri della parola.
La guerra come grande spettacolo emotivo
Guerra e spettacolo si sovrappongono sempre di più. Non si combatte più soltanto sui campi di battaglia, ma nelle dirette televisive, nei post sui social, nei dibattiti infiniti che incendiano le menti più facilmente infiammabili. La guerra diventa un grande show, un’emozione collettiva, un rito attraverso cui sentirsi vivi, schierati, presenti.
E come in ogni grande spettacolo, servono protagonisti e antagonisti. Servono simboli da idolatrare e nemici da odiare. Servono slogan semplici, ridicoli nella loro pretesa di spiegare il mondo. E soprattutto, servono spettatori. Tanti, tantissimi spettatori che si convincano che stare davanti allo schermo e indignarsi sia una forma di partecipazione.
Il bisogno di scaricare il caos interiore
Forse tutto questo fervore bellico è solo il sintomo di un disagio più profondo. Siamo frustrati, alienati, nevrotici. La società ci spinge a essere produttivi, performanti, sempre all’altezza, e quando non riusciamo a sostenere il peso di queste aspettative, dobbiamo trovare una valvola di sfogo. E cosa c’è di meglio di una guerra – purché combattuta da altri – per incanalare tutta questa energia repressa?
Gridiamo vendetta, invochiamo coraggio, ci infiammiamo per un ideale che spesso neanche comprendiamo fino in fondo. Facciamo tutto questo per sentirci vivi, per colmare il vuoto che ci portiamo dentro. Ma alla fine, ciò che resta è solo il rumore di fondo di un mondo che ha smesso di riflettere e ha iniziato a reagire d’istinto, come un animale in gabbia che sbatte contro le sbarre senza sapere perché.
Un mondo di uomini veri e di scelte vere
Il mio augurio? Che al posto di eserciti di indignati da divano, al posto di analisti improvvisati e politici in cerca di gloria, possano esserci uomini e donne capaci di pensare. Che invece di giocare alla guerra da casa propria, si possa riscoprire il valore della lucidità, della riflessione, della responsabilità.
Perché il vero coraggio, oggi, non è farsi trascinare dal furore collettivo, ma fermarsi e chiedersi: dove stiamo andando? E soprattutto, chi ci sta portando fin lì?
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