L'autore
Ciao sono l'autore del sito, del blog e dei libri. Il mio intento, ed è il motivo per cui ho realizzato questo sito, è provare a compiere un viaggio non in luoghi esotici o remoti, un viaggio, anzi il viaggio più vicino eppure quello più lontano: quello dentro noi stessi. Se vi va, proveremo insieme ad osservare in profondità l'animo umano e le innumerevoli contraddizioni dell'esistenza. Faremo in modo da mescolare introspezione e critica sociale, proveremo ad esplorare con sensibilità i temi universali della solitudine, del tempo, del senso della vita e delle maschere che indossiamo. Senza nessun dovere di essere o diventare qualcuno o qualcosa, con un pizzico di coraggio e di apertura mentale, di volta in volta, ci confronteremo con l'ignoto, con l'incompiuto e con il mistero, e con leggerezza e fiducia proveremo a dare uno sguardo oltre le apparenze e a confrontarsi con le proprie verità interiori.




Edy Generoso Fummo
La premessa (Racconto tratto dal libro "Le vite alla finestra")
Ci sono vite che sembrano nascere già sbilenche, confuse, insolite, complicate. La mia è una di quelle, e ogni tanto ci penso come si pensa a un racconto che si conosce a memoria. Ci sono i passaggi chiave, i capitoli che non scordi, anche se vorresti. Quindi tra queste vite ci sono io, poi ci sono i miei genitori, così diversi da come immaginavo i genitori dovessero essere, assenti e affaccendati, come ombre di carta che giravano in un mondo senza colori. Avrei voluto fare l’artistico, ma mio padre, lui era il classico tipo tutto d’un pezzo, uno di quelli senza dubbi. Era operaio, sindacalista, la sua massima aspirazione per me è che diventassi anch’io un uomo di fabbrica, e poi c’era mia madre… be’, lei era una casalinga e basta. A quei tempi i genitori non ti chiedevano mai cosa volessi fare, capisci? Dovevi solo obbedire.
Così, anche per questioni economiche mi sono ritrovato con quei noiosissimi libri, a fare disegni sui margini dei quaderni durante lezioni di cui non capivo un accidente. Ricordo quelle ore di scuola, costretto sui banchi tecnici, a fingere un interesse che non c’era. La mia testa era altrove, lo è sempre stata. E disegnavo. Disegnavo come se ogni tratto fosse un respiro, come se ogni linea fosse una possibilità di fuga. Volevo l’arte, volevo la libertà, ma la vita aveva già scelto per me. I libri, quelli di mio cugino che aveva studiato all’istituto tecnico, erano usati, passati, stanchi, con un odore che sapeva di vecchio e stantio. Non ero io, capisci? Quei numeri, quelle formule. Io volevo disegnare, volevo dipingere, o almeno così credevo, ma ero lì, a imparare robe di cui non me ne fregava niente. E alla fine, ho mollato tutto. Non c’era nulla che mi legasse a quella scuola, niente che mi facesse pensare che valesse la pena restare, che valesse la pena finire.
A dire il vero, non ho mai finito niente. Né la scuola, né un dannato progetto che fosse uno. Quindi non ho mai studiato veramente sul serio. Non sono laureato. Non che mi interessasse. Eppure nel corso degli anni ho letto migliaia di libri tra romanzi e saggi. C’è stato un periodo in cui leggevo contemporaneamente sette libri al giorno, seguendo un percorso molto articolato e non proprio ordinario di conoscenza. Spesso, a scuola, prima che l’abbandonassi, gli insegnanti erano soliti citarci il motto dei monaci benedettini “Ora et labora”, come se fosse una legge antica e inviolabile, e io sorridevo pensando ai monaci che pregavano in cella e in chiesa, a intervalli regolari, sia di giorno sia di notte. E li immaginavo al loro lavoro che, oltre alle incombenze quotidiane, principalmente, era scrivere, riuniti in una stanza. Tutto il giorno copiavano manoscritti e li abbellivano dipingendo miniature. Mi ripetevo che quello sì che era un bel lavoro.
Col tempo però, “Ora et labora”, per me diventarono parole feroci, fiamme che bruciavano l’anima, obblighi inaccettabili, ho sempre pensato che “pregare e lavorare” non fossero due verbi, ma due gabbie soffocanti, erano l’essenza del vivere una vita pienamente inconsapevole e condizionata, e quindi ne rifuggivo, e in questo modo ho reso la mia vita una premessa, una lunga introduzione, un persistente esordio, una specie di inseguimento, come quei cani da corsa che rincorrono un finto coniglio, ma non arrivano mai da nessuna parte. Gli anni passavano e, senza quasi accorgermene, finii per abbandonare tutto. Scuola, sogni, perfino le mie convinzioni. E da giovanissimo, mi ritrovai a vivere l’illusione che, in qualche modo, il lavoro mi avrebbe reso libero. Ma ogni giornata sembrava una cella, ogni turno un passo verso una prigione che non aveva fine. Di fatto però, come un destino beffardo, a vent’anni ero già al lavoro. Ero già in gabbia, e non facevo che tirare avanti. Ho cambiato mille lavori. E di volta in volta sono stato conciatore di pelli, guardiano notturno, perfino consulente finanziario. Ogni volta speravo che quello fosse l’ultimo, che magari finalmente sarebbe stato diverso. Ma non lo era mai.
Il lavoro è sempre stata una trappola, qualcosa che ti stringe, che ti toglie l’aria. Ma se dici così, la gente pensa che sei un fannullone, uno che non vuole fare nulla. Non è vero, sai? Quando lavoravo, lo facevo sul serio, ci mettevo tutto me stesso. Ma dentro, era come se ci fosse una voce che mi diceva sempre: “Questa non è la tua vita.” Con un bel po’ di anni di ritardo, ripresi a studiare. Mi diplomai in ragioneria a ventisette anni, solo perché mi occorreva un pezzo di carta per lavorare. Era come una condanna, ma non avevo scelta. Quel “pezzo di carta mi servì per entrare nel mondo delle banche, delle assicurazioni, e anche lì ho recitato il mio bel copione. E ho odiato ogni singolo momento che ho vissuto in quegli ambienti. C’era una ragazza dietro questa scelta, una brava ragazza, figlia di un banchiere. All’inizio sembrava giusto, ma era tutto sbagliato. Non era la mia storia. E alla fine anche quella è andata in pezzi, come tutto il resto.
Così, cambiai mille volte. Mi adattavo a lavori come si cambia pelle, ma ogni nuova veste mi stava stretta. Ogni lavoro aveva il suo travestimento, il suo rituale, ma dentro di me la lotta era sempre la stessa: ero prigioniero, e non avevo una chiave per uscire. Sono sempre stato alla ricerca di qualcosa che mandasse in frantumi le mura in cui io stesso mi rinchiudevo. Ho fatto sempre le cose di corsa, tutta la mia vita è stata una corsa. Come un calciatore che rincorre sempre la palla, che arriva sempre un secondo dopo. Solo che io non sapevo neanche cosa fare con quella maledetta palla. Non ho mai capito bene cosa volessi fare, ma sapevo cosa non volevo. Non volevo essere prigioniero, non volevo quella routine che, giorno dopo giorno, era sempre più ripetitiva e noiosa, eppure, in un angolo remoto della mia anima, quell’andazzo ossessivo non lo ritenevo l’unico possibile. E così ho passato la mia vita a cercare di sfuggire a qualcosa che mi inseguiva. Ogni volta che mi trovavo davanti a una scelta, sapevo soltanto una cosa: non volevo fare quello che facevo. Sognavo di creare, di dare vita a qualcosa di mio, ma la vita, quella vita fatta di doveri e scelte obbligate, mi riportava sempre indietro.
Oggi, vecchio ma non stanco, mi ritrovo a pensare che per molto, troppo tempo sono stato come un mediocre giocatore di scacchi. Ho fatto tutte le mosse di apertura, ho piazzato i pezzi, mi sono protetto. Ma, al centro della partita, non ho mai saputo come andare avanti. Non ho mai avuto una strategia, non un piano. Sono rimasto lì, fermo, senza sapere come muovere i miei pezzi. Solo adesso, che è giunto il momento di fare la mossa decisiva, ho intuito cosa fare. Ed è la cosa più semplice e giusta.
Ma questa per il momento non la rivelerò.
© 2024. All rights reserved.